sabato 24 marzo 2012

Articolo 18


Non si combatte una battaglia lunga e difficile, come quella che si preannuncia per svuotare di contenuti l'art.18, solo per poter licenziare qualche centinaio, o poche migliaia, di lavoratori dipendenti.

Sarebbe stato facile offrire alle imprese qualche compensazione per tenerseli. Sarebbe stato facile accettarla e lasciar perdere.

Qui sono in gioco, evidentemente, decine di migliaia di licenziamenti.
E qualche centinaio di migliaia di lavoratori che, con la semplice minaccia della perdita del posto, diventano ricattabili. Ricattabili senza alcun limite, senza alcun pudore, senza dignità. Sarà facile trasferirli da una città all'altra, adibirli a mansioni dequalificanti, pretendere da loro straordinari non pagati, farli lavorare trascurando le normative di sicurezza.
Saranno padri che torneranno a casa con gli occhi bassi, umiliati e frustrati, saranno giovani madri che dovranno abbozzare imbarazzati sorrisi alle stupide avances di un qualunque capufficio, perché a casa ci sono i bambini a cui dar da mangiare, e non si possono correre rischi.

E, comunque, decine di migliaia di licenziamenti.

Probabilmente cinquantenni, a 15 o 20 anni di distanza da una piccola pensione.
Alcuni troveranno un altro lavoro (ma quanti? Non sei più giovane, non hai competenze particolari e poi, se ti hanno licenziato, evidentemente un motivo ci sarà stato...).
Alcuni se la caveranno, magari con l'aiuto di parenti o amici, magari con lavoretti in nero.
Alcuni no, non se la caveranno. Arriverà qualche provvidenziale malattia psicosomatica a portarli via da una vita che, ormai, non vale più la pena vivere.
Alcuni, certo, si suicideranno. Sono cose che succedono.
Molti di loro hanno dei figli e questi, certo, non potranno più avere il futuro che immaginavano. Certo, alcuni faranno da soli, saranno moderni "imprenditori di se stessi", avranno successo. Alcuni troveranno libero uno dei posti di lavoro lasciati dalla generazione che li ha preceduti, saranno contenti e poi, magari fra trent'anni, seguiranno lo stesso destino dei loro genitori.
Alcuni no, non ce la faranno. Saranno disadattati, o criminali. Moriranno giovani, o uccideranno altre persone.
Ancora morti.

Chi ha pianificato tutto questo, ne è pienamente consapevole. Ha pianificato anche i morti. Non li vorrebbe, certo, ma in qualche misura sono delle conseguenze inevitabili di un radicale processo di ristrutturazione del mondo del lavoro. Un prezzo da pagare per mantenere in vita il "sistema economico" perché, e questo è il nostro limite, non c'è nessuno capace di immaginarne un altro; dietro c'è solo l'anarchia, il buio, e le classi dirigenti hanno paura del buio, come i bambini.

Chi ha pianificato tutto questo è come un generale, il cui compito è quello di pianificare la battaglia e uscirne vittorioso, facendo una stima delle perdite, degli inevitabili danni collaterali, ed accettandoli con la rassegnazione del professionista, del tecnico, dell'uomo che è chiamato a più alte responsabilità per difendere "il sistema". Non è un uomo che ama la guerra, non l'ha voluta lui. Non che l'abbia scelto lui, il sistema. Ma non è che qualcuno abbia proposto valide alternative, e allora...

E questo è il punto più drammatico. La scelta a cui nessuno di noi può sottrarsi. O accettiamo il conto delle perdite, e allora la finiamo di lamentarci e, come tutti i soldati in battaglia, ci limitiamo a sperare che la pallottola nemica, sparata a caso, colpisca un altro e risparmi noi, o non lo accettiamo.

Disertiamo. Passiamo all'altro schieramento. Troviamo un altro "sistema" in cui credere. Troviamo un pensatore che sappia immaginarlo, e in giro non se ne vedono. O troviamo un'idea romantica, il sogno di un mondo migliore, e combattiamo per quello. Ma la guerra c'è comunque, non possiamo sottrarci, non c'è un posto in cui nascondersi.
E, in guerra, sparare al generale nemico, e magari rischiare la propria vita per farlo, non è un crimine, è un dovere, è un gesto eroico. Forse dobbiamo ripensare ai giudizi che abbiamo dato sul terrorismo degli anni settanta, all'idea del delitto politico rispetto all'omicidio comune.
Forse dobbiamo avere il coraggio di ripensare alla facile esecrazione che abbiamo riservato a chi ha sparato ai giuslavoristi che avevano pianificato le prime riforme del mercato del lavoro. Erano i primi generali che combattevano per difendere il sistema, e i primi idealisti che sceglievano di combattere per cambiarlo. 

Perché è allora che la guerra è cominciata.